Novembre 1999

La risalita mi sembrò molto faticosa, anche se il paesaggio sbiancato dall’inverno , mi affascinava abbagliandomi di luce.
Camminando nella neve dura, rischiavo spesso di scivolare, soprattutto sui pendii più ripidi. Ma in realtà non c’era nessun problema, se non un senso di solitudine ed estraneazione totale, appena appena attenuato dal telefonino acceso che portavo con me in una tasca esterna dello zaino. Andavo su con calma, senza agitarmi, perché ormai avevo imparato un po’ a camminare in montagna. Respiravo a pieni polmoni, inspirando dal naso come mi aveva suggerito un amico; ogni tanto mi fermavo a guardare intorno e a riposare. Arrivai sul dosso alle 11.30, ben più tardi del previsto.
L’altipiano di Jaco, come una tovaglia ad asciugare, sembrava appoggiato lì per caso tra i boschi e le rocce.
Tutto era diverso dall’ultima volta, tutto era infinitamente più lontano: un mondo candido e fermo, pervaso da un silenzio infinito. Ormai ero abituato a sedermi sul dosso ad ammirare il paesaggio; col binocolo cercai di inquadrare qualcosa che vedevo correre giù verso la malga. Una lepre forse o una volpe? Guardai anche a monte, verso il Cimon della Pala e verso il Mulaz.
"Che spettacolo !" pensavo, felice d’esser giunto fin lì.
Jaco, come sempre, mi venne incontro sorridendo e agitando la mano per salutarmi con quella sua andatura un po’ scanzonata, coi suoi pantaloni alla zuava, col suo cordino al posto della cintura, senza guanti né copricapo ma con un paio di occhiali da sole e Rube al seguito.
Arrivati a casa e lasciato lo zaino sotto il portico mi chiese di andare a salutare le bestie in stalla. C’erano la mucca, la Nerina per esattezza, Picchio, quattro caprette e qualche gallina. Sembravano in piena salute. "Guarda, ho fatto il tirante della capriata col tuo cavetto d’acciaio. Come ti sembra ?"
"Non è sottile ?"
"Spero di no, serve solo come rinforzo per evitare che il trave crepi di più"
"Bello ! Speriamo che tenga."
Usciti dalla stalla mi indicò le due piccole palizzate, fatte da pochi giorni col malgaro per proteggere il muro a monte dalla neve.
"Così riesco a spalare senza che ne venga giù troppa."
Finalmente entrammo in attrezzeria dove mi tolsi le pedule bagnate. Disfai lo zaino per consegnargli il CRC, il cacciavitino, i colori, la china, le sanguigne ed il bel pile blù che avevo acquistato.
Sul focolare due ceppi scoppiettanti bruciavano vivacemente con un bel fuoco; sulla cucina economica la pentola a scaldare, sul tavolo la ciotola del latte, il tagliere con un salamino invitante e la polenta ancora fumante. Buttai giù un ottavino d’un sorso solo, anche per sciogliermi un po’. Poi raddoppiai sotto gli occhi divertiti di Jaco. Mi sentivo già a casa; lo stanzone accogliente, caldo e così semplicemente naturale, metteva subito a proprio agio chiunque lo frequentasse. Era un ambiente persuasivo, tiepidamente ordinato, meravigliosamente privo di suppellettili inutili, arcaico, asciutto e semplice; lievemente ricoperto da quella patina di vissuto che solo i materiali naturali come il legno e la pietra, riescono ad apprendere col tempo, come il colore dei giorni che passano. Pur essendo tutto perfettamente pulito, con ogni cosa messa al suo posto, quella strana convivenza di quadri, colori e colle e di macchinari elettronici, al cospetto di ciotole di terracotta e di legno, vecchi cesti di vimini, pentole di rame, mestoli fatti a mano, taglieri e cibarie in vista; tutte quelle cose messe insieme, pur potendo sembrare all’apparenza contrastanti e tra loro inconciliabili, conferivano all’ambiente una certa ricchezza e varietà di contenuti. Non si trattava cioè di una casa monocorde e monoculturale del tipo baita di montagna ristrutturata, né benchè meno del tipo villino in stile e ancora meno casa da architetto, bensì di un’intelligente e variegata commistione tra il vecchio e il nuovo, una semplice mescolanza, nell’assenza più totale di perfezione e di dettagli ricercati. Tutto era fatto a mano, con i materiali del luogo, con attrezzi poveri ed antichi, cosicchè sembrava di sentire la presenza di chi ci aveva lavorato, la testimonianza di un modo di lavorare, di antiche usanze artigianali e di vecchi metodi costruttivi. Niente cemento, niente intonaci, niente pittura, niente vernici, niente plastica. I colori erano i colori stessi dei materiali: il tavolato di legno del pavimento, i tavoloni dei piani d’appoggio, i travi più scuri del solaio e degli architravi sopra le finestre, la pietra dei muri e del focolare, la stufa e la cucina economica, le due porte di legno già vecchio perché probabilmente recuperate, i cesti. L’unico materiale per così dire contemporaneo, oltre alla griglia con la sua piastra in titanio ed i macchinari elettronici sul tavolo tecnico, era il doppio vetro camera delle finestrelle. Sul cavalletto c’era poggiato un quadro nuovo; molto chiaro, realizzato con tecniche simili al precedente, ma fatto di trasparenze profonde su bianchi più o meno freddi, dal ghiaccio all’avorio con parecchie tonalità. Il pannello misurava circa un metro per un metro, le carte e le pergamene sovrapposte come a fare dei rilievi si trovavano disposte lungo una mezza diagonale verso l’alto. Alla base del quadro, per un’altezza di circa dieci centimetri sotto un’altra sovrapposizione di carte di riso sbiancate ma ancora trasparenti, s’intravvedeva una piccola scrittura con caratteri dal sapore quattrocentesco. Nel mezzo del quadro traspariva un’immagine appena percettibile dai contorni sfumati; un volto probabilmente scannerizzato dal computer schiarito nei chiaroscuri da velature di bianco. Quell’altro quadro era fatto di verdi e di blù, questo di bianco.
"Probabilmente" pensavo, "sente le stagioni".
Mangiando nella ciotola una minestra di riso e ceci, Jaco, come se non ci fossimo mai lasciati, in modo del tutto normale e con una scioltezza che mi stupì, riprese a parlare:
"La materia non transgredisce se stessa. Il legno è legno, la pietra è pietra finchè non diventa un’opera d’arte. Michelangelo diceva che uno scultore non plasma la pietra ma l’idea. Allora un bravo falegname che fa un lavoro fatto bene per realizzare, che so, un tavolo o una sedia, lascia di sé una testimonianza se lo plasma con le mani in un processo produttivo del pezzo unico e non seriale; ma il legno resta legno. La materia transgredisce se stessa per divenire opera d’arte solo sotto i colpi del demiurgo che la plasma per generare una forma dello spirito. E’ un concetto platonico, ma in fondo, le cose stanno proprio così: pensaci e vedrai. Il resto è ideologia. Certo oggi col superomismo di massa e col dilagare di una strana cultura che definirei solipsista, dall’arte all’architettura, fino al divertimento e lo sport si cerca l’estremo per godere e non l’armonia delle proporzioni ed un’idea di bellezza, sia pur nuova, ma pur sempre semplice e duratura."
"Hai ragione, ci pensavo proprio giorni addietro alla vocazione che dovrebbero avere l’arte e l’architettura di durare nel tempo, che è l’unico vero ed implacabile arbitro dell’atto creativo. Ne ho parlato anche alla cerimonia del premio d’architettura, ma senza troppo entusiasmo. In realtà in questo periodo ho pensato tanto al futuro, così ho capito davvero la dignità della tua scelta di rinunciare alla pratica della professione. E’ una scelta che ha le sue ragioni anche al di là di quelle più personali. Ho capito che io stesso, per istinto, in qualche modo ho operato una scelta rinunciataria nei riguardi della nuova edificazione. Ho incentrato la mia attenzione sulle aree di completamento, sulle ristrutturazioni e sul design, sugli allestimenti e la grafica, evitando in ogni modo di partecipare allo scempio.
La tua scelta più radicale ed ascetica di mettersi fuori dal panorama, pur dimostrando una elevata dignità etica e morale , contemporaneamente però, denuncia la tua personale sconfitta di architetto."
Pensavo anche al divertente uso dell’ossimoro retorico del superomismo di massa come sintetica definizione della vacuità di questa civiltà sbagliata e distruttiva, ormai giunta alla fine dei suoi giorni.
"Il novecento è un secolo incomprensibile" continuai; e Jaco
"E’ fuori dalla storia."
Così riprendeva il nostro dialogo!
Lì a parlare di quelle cose ed in quel modo, pareva d’esser fuori dal mondo.
In un mondo dove parole come bellezza, arte, armonia potevano essere pronunciate senza il timore d’apparire antiquati e retrogradi; dove l’intimo rapporto con la natura ispirava le fonti del ragionamento; come del resto i quadri stessi di Jaco che, guarda caso, già mi aveva manifestato il suo desiderio di ritornare al figurativo. Così gli chiesi ulteriori spiegazioni.
"L’arte di questo secolo, governata soprattutto negli ultimi anni da un esagerato antropocentrismo, si è dimenticata della natura e di quanta bellezza essa contenga."
"Eh sì, solo che il paesaggio frequentato dai più è il suburbio pervaso di spazzatura e rifiuti industriali. Allora l’artista oggi usa copertoni e pezzi di macchine in disuso perché questo è quello che ha intorno e quelli sono i suoi materiali. A ben guardare l’arte di oggi ben rappresenta la confusione, il degrado, la volgarità di una civiltà che fatica ad intravedere un futuro possibile."
"Sì, sì, lo so, ma ricorda che, se hai occhi per guardare , tra i rifiuti, potrai anche incrociare un volto, due occhi, un corpo, una luna o dei soli, una foglia, un alberello sopravvissuto al cemento. Ricordati che la bellezza s’incontra spesso e quando meno te l’aspetti. Eppure c’è, in ogni dove, anche nelle grigie periferie delle metropoli, se non altro negli occhi dei bimbi. E’ che la bellezza oggi serve agli stilisti nelle sfilate o alle multinazionali nelle pubblicità televisive; ma non serve più alla politica come strumento autorigenerante e rappresentativo di valori alti. La politica oggi è performativa, cerca consenso immediato, non può permettersi di pianificare un progetto di civiltà perché non c’è più civiltà, né di programmare la realizzazione di una nuova idea sociale, perché nel tempo dell’immediatezza non è concesso un programma a lungo termine. Infatti, vedi cosa fanno i politici nelle città ? I marciapiedi, la pavimentazione delle piazze, l’arredo urbano: realizzano opere immediate per il consenso immediato. Cercano effetti positivi alla microscala dell’effimero poi dimenticando gli effetti invece devastanti di quelle orribili pavimentazioni. Buttano via il tempo, le pietre consumate da milioni e milioni di passi, per farsi pubblicità spicciola mettendo anche la città fuori dalla storia. Mi domando come sia possibile tutto ciò."
"Si fanno i marciapiedi perché non si sa cosa c’è dopo. Qualcosa dovranno pur fare."
"Si, sì; solo che per il consenso è molto più performativo rifare la pavimentazione delle piazze del centro già perfette così come sono; costi quel che costi, non in termini economici, ma in termini di distruzione. Perché concentrarsi a fare un parco giochi per bambini magari in un piccolo vuoto urbano periferico e inutilizzato come faceva Jacobsen? Solo per far contenti quei pochi sfigati che abitano lì? E chi se ne frega! Meglio farsi belli con gli influenti, accontentare i residenti del centro e i turisti e i commercianti. Quelli sono voti sicuri !
Perché dovrebbero pensare a rigenerare i suburbi, a trovare case agli immigrati nella speranza di costruire una possibile convivenza accettabile? Perché dovrebbero promuovere una nuova densità abitativa ed una nuova commistione di funzioni nelle periferie invece di continuare a trasformare i campi in terreni edificabili? Te lo dico io perché: nel primo caso gli abitanti, che non capiscono, s’incazzano; nel secondo i proprietari e le imprese festeggiano a champagne e portano voti per alimentare i propri interessi ! Scusami se mi scaldo; non ti spaventare. E’ che ho paura."
"Non ti preoccupare, non mi spavento."
Ma Jaco ormai s’era infervorato: "E’ come con la droga. Parlano, parlano, tante notizie ai telegiornali, e poi scopri, se cerchi di guardare dentro le cose, che la droga è funzionale al sistema, come la farina per il pane. Ma a chi credono di darla a bere, questi politici? Gente che negli ultimi anni non ha esitato a seppellire nei giardini e a imbottire le poltrone di denari, lingotti, pietre preziose, sottratti a fiumi dai beni di tutti, gente che ha vissuto in prima persona la quotidiana illiceità del furto e della truffa; questa gentaglia ha sempre chiuso un occhio, nei riguardi della droga. I ragazzi scontenti e spaesati, possono diventare un problema serio. Meglio che si brucino il cervello con l’ecstasy e i decibel delle discoteche durante il weekend, così sfogano l’adrenalina e si rimbecilliscono. Sai quanto ci vuole ad eliminare l’ecstasy dalle discoteche? Basta fare un paio di decretini in un paio di giorni: chi spaccia si becca un paio d’anni di galera senza condizionale perché è un omicida anche se con qualche attenuante - il gestore della discoteca chiude, paga una multa salata e va sotto processo per favoreggiamento. Ti pare illiberale ed intollerante ? Allora dimmi, don Chisciotte, cosa farai quando t’accorgerai che la tua Carlotta in guepìere si scatena sulla pista, inebetita da un mix assassino di prodotti chimici ? C’è un sacco di gente che si adopera per salvare questi ragazzi e per aiutarli. Ma ai miopi potenti va bene così, altrimenti quegli stessi ragazzi troverebbero modi ben più fastidiosi per liberarsi della rabbia che gli pompa nelle vene. I gestori di discoteche frequentano i salotti degli amministratori, quelli stessi che magari fan la guerra al prete che organizza il centro di accoglienza …
Oppure con gli extracomunitari: quegli stessi che fino a ieri, vinti da un’ignoranza demagogica, li vedevano come cause di tutti i mali, oggi al bisogno, li mettono nelle fabbrichette, per poi continuare in salotto a dichiararsi candidamente contrari all’integrazione. Questi disgraziati di extracomunitari arrivano in un inferno peggiore di quello da cui vengono; trovano solidarietà solo dai poveri o da quei pochi che si ricordano di un nonno o uno zio immigrati in Germania. Mi sarebbe piaciuto molto se avessero davvero candidato al Nobel per la pace la gente del Salento, sai che lezione ai nostri politici demagoghi?"
"Ricordo una conferenza di Paolo Ceccarelli, allora rettore dello IUAV, che circa venti anni fa disse: "i sindaci farebbero bene a predisporre le loro città per far fronte all’ondata di immigrazione che si aspetta veramente incontenibile intorno agli anni 2000."
"Vedi? Questi politici ne avevano di strumenti per pianificare veramente le città. E invece, anche se ammoniti dal rettore e da molti altri, han cominciato a pensare alle pavimentazioni delle piazze, alle panchine, ai salotti buoni, al turismo, ai centri commerciali. Adesso si accorgono in ritardo dei ghetti e dei rifugi di tutta quella povera gente che senza lavoro e senza casa, cosa dovrebbe fare se non mettersi ai semafori o far servizietti alla criminalità? Le prostitute sono tante perché c’è la domanda. Dicono che diffondono l’aids, quelle povere ragazze. E invece si diffonde perché il buon padre di famiglia va in Brasile e in Thailandia con le bimbe e , peggio, anche coi bimbi, e poi se lo portano a casa l’aids, sotto le lenzuola delle mogli e delle amanti."
"Ma ormai non serve più spender soldi per il turismo sessuale, perché si trova tutto qui da noi."
Effettivamente in quel periodo si assisteva a un gran parlare di pasticche e di discoteche, perché c’era scappato un ragazzo morto e così i mass media s’eran scatenati. Mi chiedevo come facesse Jaco ad essere così informato di tutto, come se leggesse i quotidiani e ascoltasse i telegiornali. Probabilmente attraverso il computer ogni tanto frequentava siti di giornali e televisioni, perché gli esempi e le battute che faceva erano sempre particolarmente attuali. Comunque non ero molto d’accordo nel pensare che una legge repressiva potesse risolvere il problema, e lo dissi.
"Lo sapevo che avresti tirato fuori questi argomenti, ormai ti conosco…" .Il suo tono, pur serio e fermo, era comunque affettuoso "…ma vedi, devono dare un segnale forte a questi ragazzi, che credono di comprare la pasticca come si compra l’aranciata al bar, o la sigaretta dal tabaccaio, o la pastasciutta al supermercato. Secondo me non sanno bene quello che fanno, non sanno di essere dei tossici; queste sono droghe infide, lo sballo risulta esaltato dalla musica e dalla frenesia collettiva, tutti le prendono e allora è normale prenderle. I segnali che mancano sono i segnali politici, sia per i ragazzi che per i genitori, che spesso si accorgono con troppo ritardo del dramma dei loro figli. Gli effetti sul cervello pare siano devastanti, e non credo che le cellule bruciate si possano rigenerare, ho l’impressione che vadano perdute definitivamente. Direi che chi produce e chi vende a scopo di lucro quella roba chimica pare ci mettano dentro di tutto, perfino gli anticriptogamici tra i malfattori possa tranquillamente stare a fianco dei rapitori, degli assassini e di coloro che usano violenza sui minori. La droga è come un cancro, solo che quando ti trovano il tumore diventi un malato da curare; chi assume sostanze stupefacenti è un drogato e basta!"
"E allora, se la pensi così, come fai a pensare che la repressione vada bene per risolvere il problema?"
"E’ il male minore, bisogna interrompere la catena e i ragazzi devono sapere fino in fondo di aver a che fare con roba che "scotta", di aver a che fare con assassini e non con delinquentelli da imitare e magari da ammirare."
"Non credi che si possano verificare effetti ancora peggiori, magari avvicinando ancora di più la criminalità ai ragazzi?"
"Finchè i benpensanti continueranno a pensarla così, tutto continuerà così. Devi capire che chi vende anche una sola di quelle pastiglie è un assassino; quando ti sarà chiaro questo concetto, vedrai che non penserai più solo alle attenuanti."
Non avevo voglia di controbattere, anche perché, in realtà, avevo pochi argomenti su cui dissentire, se non una specie di terrore per qualsiasi forma di repressione; capivo come Jaco non parlasse per luoghi comuni, anzi; così non sentivo nemmeno quella strana lontananza che normalmente si sente quando si capisce d’aver due visioni tanto lontane… In realtà pensavo che Jaco potesse anche avere ragione.
Ritenendo comunque d’aver esaurito l’argomento, ormai consumato il pasto, come sempre squisito, ci accontentammo di proseguire parlando del più e del meno. Voleva sapere della mia famiglia, dei figli, dei miei fratelli. Mi incalzava di domande su Sergio e Carlotta, sull’asilo, sui loro amichetti, sui loro giochi. Mi chiese di guardare le vecchie foto in bianco e nero, così gli raccontai bene di mio padre, di mia madre, del nonno pittore, dello zio pittore, di mia nonna e dei miei suoceri.
"Perché mi hai chiesto di portarti su queste foto?"
"Perché vorrei scannerizzarle per il mio archivio di volti per i quadri e per sapere di te. Avevo capito quanto fosse importante per te la famiglia e quanto tenessi alla tua discendenza; volevo capire quanto facesse parte di te e quanto ne fossi vittima."
"E cosa concludi?"
"Ma non scherzerai mica, vero? Abbiamo appena cominciato a parlarne. Dobbiamo approfondire molte cose, dobbiamo parlare delle architetture di tuo padre e dei quadri di tuo zio e di tuo nonno, mi devi raccontare ancora un sacco di cose…"
"Cosa vuoi sapere?"
Le sue domande, incentrate molto per ora sulle opere e meno sugli aspetti umani, diventavano sempre più precise. Alimentato da una sincera curiosità, voleva sapere tutto sul loro modo di vivere l’arte, d’altronde già sapevo quanto fosse epicentrico per Jaco l’atto creativo rispetto a tutto il resto. Così cercai di mettere a fuoco i miei ricordi di ragazzo e le mie conoscenze sull’arte veneta, in particolar modo veneziana e trevigiana, per inquadrare un po’ il discorso in un qualcosa di più compiuto e meno personale. Partendo da lontano, cercai di raccontare qualcosa sul mondo artistico veneziano nei primissimi anni del novecento, dominato dal virtuosismo di Ettore Tito e dal paesaggismo di Guglielmo ed Emma Ciardi, entrambi maestri di mio nonno Giacomo all’accademia nel 1908. Ricordai qualcosa delle biennali di quegli anni che dovevano essere veramente emozionanti e straordinarie. Giungevano a Venezia i quadri degli impressionisti, ma soprattutto di Van Gogh e Cézanne , a Palazzo Pesaro nel 1910 esponeva Boccioni. Fra i tanti paesaggi, ogni tanto affiorava il nuovo, e non solo ai Giardini di S. Elena, ma anche alla Bevilacqua la Masa ed in qualche altra Galleria. Gli artisti rifiutati dalla Biennale esponevano all’Excelsior al Lido e tra loro Gino Rossi, Martini, Moggioli, Springolo, Casorati e tutto il gruppo di palazzo Pesaro, difeso coraggiosamente da Barbantini. Gli esiliati a Burano, Rossi e Moggioli e qualche altro sferravano battaglie dure e dolorose contro l’arte borghese ed il servilismo della critica dominante.
"Il nonno in quel periodo abitava in una stanzetta del conservatorio a Palazzo Pisani in Campo S. Stefano. C’erano la Toti dal Monte e lo Scarlino tra i tanti maestri che vi dimoravano. Oltre ai musicisti, frequentava ambienti di artisti e di artigiani come i liutai ed uno in particolare, un decoratore del maestro Beni, che costruiva grandi marionette per le rappresentazioni dei pupi. Mi pare si chiamasse Canever. Frequentava Luigi Nono Fragiacomo, lo scultore Dal Zotto e poi Laurenti, Milesi, De Maria. Conobbe Marinetti e passò con lui qualche nottata. Nel 1912 si diplomò sia a Venezia che ad Urbino e così entrò a far parte davvero del gruppo dei giovani artisti.
Poi la guerra spezzò tutto. Addetto al disegno ed al Diario di Guerra dei reparti in trincea, fremeva così tanto d’amore per la patria e di commozione per gli alpini uccisi, che volontariamente frequentò un corso ufficiali in trincea. Subito promosso fu trasferito in battaglia sul monte Vodice. Lì il nostro esercito perdette trentamila soldati. Poi fu trasferito ad occidente di Cortina, infine a Vidor. Durante la battaglia sul Vodice, meritò una medaglia d’argento, a Vidor una di bronzo. Poi fu gravemente ferito e, debilitato da una terribile convalescenza, si ammalò di tifo e flebite. Salvo per miracolo, fu finalmente distaccato a Ferrara, dove festeggiò la fine della guerra nel novembre del 18. Dopo vari trasferimenti fra Roma e Milano, dal 24 insegnò figura e copia dal vero all’università delle arti figurative di Monza, poi chiusa nel 27, perché antifascista. Tornò a Treviso, a Fagarè e fondò una scuola di arti e mestieri. In quegli anni tra le due guerre intorno a Treviso, gente come Martini, Gino Rossi, Springolo e molti altri, costruivano le fondamenta della loro pittura e si incontravano alle mostre collettive ed alle varie esposizioni che si succedevano numerose nelle gallerie d’arte sparse in un territorio vasto ed ancora in parte rurale ed arcaico. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, combattuta ancora in prima linea, si trasferì a Venezia, in Campo S. Giacomo, ormai quasi sessantenne. Il figlio Angelo e mio padre frequentavano un gruppo di artisti scapestrati e bohemienne, tra i quali spiccano Tancredi, De Luigi, Bepi Longo, Boldrin, Finzi, Rampin, Santomaso, Pizzinato, il critico Berto Morucchio e molti altri. Il nonno invece esponeva molto, teneva conferenze, frequentava Guidi, il poeta Mario Stefani, lo straordinario amico artigiano Cadorin, qualche musicista e qualche critico più inserito nel sistema. Il povero zio Elo, viveva in un mondo tutto suo, visionario e poetico. Sergio invece, dall’università di architettura si fece amico Carlo Scarpa, suo figlio Tobia, e Valeriano Pastor poi diventato rettore. La cosiddetta generazione di mezzo, ancora poco conosciuta, che oggi chiamano sbagliando spazialista, finì per dilapidare la sua storia stessa., nei cenacoli ribelli e nelle osterie, tra i fumi dell’alcool, i suicidi, la follia. Pochi lo sanno e pochi ne parlano, ma fu un’ecatombe. Il famoso falò di campo S. Giacomo resta come il paradigma autodistruttivo di un’intera generazione di artisti sfortunati ed incompresi. A casa dei miei, questa frattura si viveva in modo lacerante ed emblematico. Il nonno esponeva, Elo combatteva contro tutto per salvaguardare la sua libertà creativa, l’architettura di mio padre nasceva intorno al maestri Scarpa e Albini. Così il contrasto generazionale diventava devastante perché complicato anche e soprattutto da due modi diversi di concepire l’arte. Poi il dolore per le condizioni di salute di Elo, attenuò le violente discussioni e divergenze; fino alla fine, alla morte prematura del giovane e disperato pittore. Venezia dedicò una grande mostra, un fregio post mortem, ad Angelo nella sede prestigiosa di Cà Vendramin Calergi. I critici si scatenarono, tranne Morucchio che scrisse "Se il povero Elo, potesse vedere, se ne starebbe rintanato chissà dove, a guardare da lontano…" In letto di morte lasciò il desiderio di non mercificare la sua opera. Io me lo ricordo molto bene Elo. Veniva ospite da noi a Padova, quando s’ammalava. Coi suoi capelli lunghi e lisci, le braghe di tela, i sandali ai piedi, la giacca sformata piena di blocchetti, matite, penne; magrissimo. Ci raccontava di filosofia, di poesia, ci accompagnava a vedere Giotto e Mantegna e ci portava nei campi a vedere il grano e le case dei contadini. Ci sedevamo per terra e lui declamava poesie cercando di spiegarcele, con una dolcezza infinita; con noi bimbi si sentiva libero di esprimere i suoi sentimenti e si apriva diventando anche lui, con noi, un giovinetto sognante. Purtroppo se ne andò prestissimo. A me restò il desiderio di metter ordine tra le sue carte, cosa che feci anni dopo, trovando una raccolta di poesie, molti scritti, ma pochi quadri perché tutti distrutti. Ci lavorai su per un anno intero, con passione e commozione."
Vedevo Jaco così interessato alla storia, agli aneddoti, ai ricordi di quegli anni, che fui felice di continuare. Conosceva l’opera di Gino Rossi direi molto bene, e molto bene quella di Springolo, di Tancredi e di Mario De Luigi. Ma, date le insistenze, capivo quanto fosse avido di conoscere la storia delle prime esposizioni di Palazzo Pesaro e poi degli astrattisti veneziani degli anni 50/60.
"Ti manderò sul computer alcune lettere di Gino Rossi a Barbantini, dai primi del 900 al 27, quando fu ricoverato in manicomio. Quella è una testimonianza straordinaria; un altro esempio di fede intramontabile nell’arte, di sofferenza ed incomprensione, di coraggio e spavalda coerenza. In quelle lettere si sente l’ambiente, l’ostilità della critica borghese, si sente la distanza di una Biennale esterofila e disattenta, si sente tutto un mondo di artisti che, intorno a Barbantini e Palazzo Pesaro, costruirono tra il 10 e il 20 una solida impalcatura per tutta l’arte contemporanea italiana. Quella gente lasciò sui muri di quel palazzo il segno ormai impresso nella storia dell’arte, di un rinnovamento tutto italiano e tutto veneziano."
Continuammo così a lungo, mentre fuori tutto pareva immobile e congelato. Dentro, invece, l’atmosfera calda e viva della casa di Jaco e dei nostri fervori, riempiva lo spazio come uno spirito invisibile ma sicuramente presente. Quella casa diventava il contenitore di due anime incantate e frementi. Mi pareva di nuovo già mi era successo l’altra volta di tornare ragazzo, di tornare com’ero a vent’anni, estasiato dall’arte e dal mondo. Sapevo bene quanta fatica per arrivare fin lì; mi era lucidamente chiaro il tormentato percorso delle nostre vite; ma dentro quella casa mi accorgevo di rinascere, in un sussulto d’entusiasmi, in un sentire profondo, in una pace ritrovata. Mi distesi sul foutòn a metà pomeriggio, felice ed appagato; a guardare i travi sul soffitto e a sognare; Jaco intanto armeggiava sul computer, in silenzio. In seguito decise d’accompagnarmi a fare due passi fuori, prima di andare a lavorare in stalla. La neve dura scricchiolava sotto gli scarponi; gli alberi intorno, come paralizzati in un’aria immobile, parevano scolpiti sul ciglio dell’altipiano. Il cane scorazzava in su e in giù, giocherellone ed allegro; Jaco sembrava non sentisse il freddo, che invece a me pareva intenso e pungente. Ci addentrammo per un po’ nel bosco a guardare le impronte degli animali selvatici, evitando quelle delle martore perché porta male, incantati anche noi come il paesaggio. Quel giorno incontrammo orme ed escrementi di cervo maschio e femmina, di capriolo, di lepre bianca, di topo selvatico, di scoiattolo, di molti uccelli e perfino di una pernice bianca. Tornati giù, ci recammo dagli animali. Mi spiegò perché ancora non fosse necessario scaldare la stufa. Col forcone tirammo giù un po’ di fieno, poi controllammo che il mangime scendesse regolarmente dal dispenser; raccolse quattro uova dal recintino delle galline, infine si fermò a coccolare Picchio, l’asinello.
Tornati in casa ci dedicammo con cura alla preparazione di una cenetta speciale, perché Jaco voleva festeggiare. Passammo una serata indimenticabile al computer, discutendo a lungo su alcuni quesiti e suggerimenti inviati nel sito internet. Ne venne fuori qualcosa di buono, ci sentivamo ispirati. Jaco, sprezzante ed ironico, serio ma divertito, allegro, maneggiava il computer ad una velocità impressionante; come niente fosse, teneva aperte un paio di conversazioni in tempo reale e contemporaneamente, discutendo con me, inviava risposte e messaggi. Lavorammo un po’ sulla città; io proposi anche l’inserimento di un edificio , tra le pagine delle ‘architetture indimenticabili poco conosciute’ e ragionammo sul concetto d’identità dei luoghi.
"Io non credo più di tanto al genius loci, nel senso dell’anima di un luogo e del destino inscritto nelle pietre. E’ un concetto debole, insufficiente per capire il significato di identità che è ben più complesso."
Jaco, in quel periodo, stava ragionando molto sul concetto di luogo, lo si vedeva dal sito, ma anche da ciò che scriveva nei fondi dei quadri; ma soprattutto lo si capiva sentendolo parlare: "Anche se davvero esistesse un’anima o una vocazione del luogo, questa sarebbe comunque un’anima traditrice, infedele e paurosa."
"Perché dici questo?"
"Perché gran parte dei luoghi che conosco, parlo delle nostre terre, hanno perso la loro anima. La gente è spaesata.
L’anima dei luoghi la fa la gente, con le sue memorie, con il ripetersi di usi e costumi, rigenerando attraverso complesse stratificazioni storiche e modificazioni, il significato stesso dei luoghi. Ma se la gente è spaesata, se la gente vive come immersa in un mare desertificato, imputridito, intorbidito; se la gente non sa più di dov’è, da dove viene; se la gente non conosce e non sa dei posti, dei paesi vicini, dei fiumi, dei monti, né tantomeno delle usanze e delle tradizioni locali perché si è persa, con la gente si perde anche il genius loci. E così gli amministratori rifanno le pavimentazioni dei centri storici e gli architetti, disegnano profili, diagonali, triangoli, per firmare anche lì, nelle piazze, la loro egocentrica creatività esaltata ed esagerata. Nelle nostre terre il genius loci si è già volatilizzato, è sparito perché è sparita l’identità del popolo, perché è mutata l’anima della gente, perché la storia è sparita.
Prima di venire qui, avevo trovato un bel posticino, nella zona di Montebelluna. Mi piaceva molto. Andavo al paese a chiedere, a farmi raccontare storie, a raccogliere informazioni. Nessuno sapeva niente. Tutti al lavoro, in fabbrica e poi tutti ai centri commerciali e poi tutti al cinema e in discoteca. Nessuno sapeva nulla del paese vicino, del colle a fianco, delle coltivazioni, delle piante, dei cibi, degli orti, degli animali E le pietre mi sembravano mute, mummificate. I pochi luoghi sopravvissuti al deserto cementificato, ormai schiacciati dalle villette plastificate e dai prefabbricati industriali, ormai abitati da qualche povero vecchio o dai nuovi mutanti, quei piccoli borghi parevano rovine; archeologia di un passato prossimo in veloce decomposizione. La frattura fra le generazioni è drammatica, impossibile da gestire e da capire, il distacco è provocato da forze "altre", lontane, incomprensibili. E’ ben più dell’omologazione Pasoliniana, già concreta negli anni ottanta; è una perdita definitiva,ormai compiuta. Il posto che avevo individuato era un pascolo pedemontano a circa 800 mt. di quota, molto bello. Ma era troppo vicino allo scempio, al desertificato accumulo di quadrotti cementificati, alle linee dell’alta tensione, ai ripetitori, ai tir, alla folle rigenerazione di una vita estranea ed incomprensibile. Non ho trovato un giovane disposto ad accettare uno scambio con me, né un vecchio disposto a ricordare qualcosa, né una donna disposta ad insegnarmi una ricetta in cambio di qualcosa che non fosse denaro. Tutta bella gente, ma persa, lontana, SPAESATA.
Quei posti bellissimi, privati della loro anima, martoriati da uno sviluppo mostruoso ed incontenibile, falciati dall’ignoranza e dall’incultura, parevano indifese trincee, ultimi avancorpi prima della distruzione "
Lo ascoltavo pensando con rammarico a quanta memoria avevo io stesso lasciato per strada. Sentendolo mi venivano in mente Paolini, ma anche Meneghello, Zanzotto, Rigoni Stern, e i racconti di monti e di mare di molti anziani con cui cerco a volte di parlare.
" Qui è diverso, c’è come una sana verginità dell’aria, della terra, della pietra. La gente convive col paesaggio e con la natura con un rispetto assoluto e profondo tramandandosi per necessità trucchi del mestiere, esperienze, maestrie, perché senza di queste non si sopravvive. Molti se ne vanno, ma quei pochi che restano, coltivano tutti i giorni con l'orto, anche l’anima delle pietre, cosicchè qui camminando in un sentiero senti davvero qualcosa, un’intensità vera e semplice, un’armonia, una spiritualità alta e severa, una sensibilità tutta particolare. I vecchi sono saggi da rispettare come dei capi e dei riferimenti. Ecco che il genius loci prende corpo, perché la gente lo trattiene, lo invita a piantar radici, lo sostiene."
"E come fare allora?"
"Io penso sia necessario ravvedersi. Intanto bisogna cominciare a prendere coscienza del fatto che la mutazione si stà verificando indipendentemente dalla volontà di ciascuno di noi. E’ un processo in atto, grande quanto il mondo intero; mostruosamente inconsapevole ed incontrollabile. Bisogna tirar su qualche barricata e cercar di difendersi. Penso sia necessario trovare un modo per minare alla radice alcune drammatiche degenerazioni: bisogna battersi."
"E come?"
"Ad esempio iniziando a defilarsi, a rinunciare"
"A cosa?"
"A volere tutto!"
"In che senso?"
"Ciascuno nel proprio ambito, deve sforzarsi per ridare pregio alle cose vere della vita."
"Mi sembra un po’ vago."
"Bisogna battersi. Gli intellettuali devono smetterla di nascondersi, devono parlare, fare la voce grossa, combattere l’incultura dilagante, il progresso cieco, la distruzione. Gli architetti devono smetterla di fare i servi dei turbocapitalisti, devono combattere contro la volgarizzazione del territorio, contro la distruzione delle città, contro l’invasione della cultura antropocentrica, superliberista, solipsista, contro il dilagare di uno scempio mortale, definitivo. Devono pensare ad abbattere, invece che pensare a costruire, devono inventare nuove metodologie progettuali per rigenerare un po’ di conoscenza e di civiltà, devono darsi da fare per ricostruire una nuova etica professionale. Gli artisti devono diffondere conoscenza, proponendo ed anticipando, in modo da poter contribuire anche loro a deviare il flusso, la marea montante. I politici devono soprattutto ritrovare legalità, etica e moralità; devono staccarsi dal business, devono tornare a pensare, devono inventare nuove regole per contenere il commercio indiscriminato. Gli industriali devono produrre impegnando le risorse sconfinate che posseggono per ricercare un concetto di sostenibilità dello sviluppo e devono tra loro, nelle loro associazioni, impegnarsi a diffondere un po’ di cultura del progresso, limitando il più possibile gli errori, denunciando i frequenti crimini contro l’ambiente, cercando di isolare sempre più l’ignoranza. Lo stato padrone, l’industriale padrone, l’artigiano padrone in contrapposizione con la classe operaia spariranno per far posto a qualcosa di più innovativo ed interessante. Poi c’è il problema delle libertà: se le leggi, la burocrazia, il controllo su tutto, hanno portato a questo, a ciò che vediamo oggi, allora è meglio cambiare anche se in questo secolo molti gradi di libertà personale sono effettivamente migliorati. Lasciamo più libera la gente di organizzarsi come vuole la propria vita e le proprie interazioni. Legiferiamo intorno ai macroobiettivi, comuni ad un popolo intero, come la lingua, la scuola, la sanità, la moneta, la vecchiaia, le infrastrutture, la difesa, i trasporti, la salvaguardia del patrimonio artistico, naturalmente combattendo la criminalità, il sopruso, la violenza. Semplifichiamo tutto. Delegiferiamo! Diamoci un taglio: semplifichiamo le leggi, la burocrazia, la giustizia. Poche regole ma buone per tutti. Bisogna gettare via tutto per ricominciare, altrimenti così andremo a finire male, molto male. Ognuno nel suo piccolo, deve dare il suo contributo di opposizione e di rinascita, a testa bassa senza esitazioni. Bisogna combattere perché l’orrore provocato fin qui è sotto gli occhi di tutti e non è confutabile. Bisogna darci un taglio netto."
"Sì, va bene; ma il consenso sui nuovi modelli è lontano a venire. Sul fatto che sia necessario porre dei freni e cambiare, siamo tutti d’accordo. Solo che alcuni vogliono cambiare perché vogliono più liberismo economico, altri perché vogliono limitarlo. E allora?"
"Ognuno deve dare il suo piccolo contributo. Ogni testa pensante deve farsi avanti e divulgare il rifiuto, palesemente senza meschine bugie, senza maschere"
"Ma bisogna pur vivere" interruppi Jaco "bisogna pur sempre portare a casa del denaro per crescere i figli, per mangiare, per la scuola, per la loro vita"
"Bisogna farlo rinunciando alle compromissioni allucinanti che si è costretti ad accettare se si cerca solo il successo economico, la scalata sociale, la carriera, l’automobile, i corpi e le forme delle top model!. Bisogna indicare una via, delle linee guida, dei percorsi. Solo così i giovani vedranno un’alternativa. Ed ogni rinuncia deve diventare pubblica e più importante di tutto il resto; deve acquisire valore non solo simbolico per demolire le fondamenta dei falsi miti di oggi."
"Ma chi potrà farlo?"
"Tu in parte lo stai già facendo, cerca di insegnarlo ai tuoi figli. Portali a vedere le campagne, le montagne, le baite, i casoni in laguna, i pescherecci, i falegnami, i frantoi, i restauratori, i contadini, invece di portarli al cinema, al calcio, ai musei, che per quello c’è tempo. Portali a parlare con i vecchi. Insegna loro a conoscere le piante, gli alberi, le foglie. Insegna a conoscere le pietre e i marmi. Raccontagli di come vivevano i nostri nonni, raccontagli della guerra, della fame, dell’amore per la patria e la propria terra. Fagli vedere che progetti cose vere, normali e buone. Che stai attento a tante cose quando lavori. Fagli conoscere la realtà per quella che è; tirali su che possano giocare da soli e gioire con un sasso o una foglia; togli di torno tutte le futilità e le bruttezze, elimina tutti quei giochi di marca, butta via i cesti pieni di plastiche. Un regalo deve essere una conquista rara ed importante. Insegna il dialetto, fai vedere loro i fiumi e le lagune e che imparino tutti i nomi. Che conoscano le storie della gente, della città, dei monumenti. Spegni la televisione e la radio; cerca di eliminare il più possibile, togli più roba che puoi da casa, e se non ce l’hai non la desiderare e fai in modo che loro non la vogliano. Trova un bel posticino vicino a casa e vai a vedere le stagioni, il caldo e il freddo, l’aria, l’umidità, i vermetti e gli insetti. Sono queste le cose che devi fare per i tuoi figli. Capisci che è tutto sbagliato fin dall’inizio?"
"A dirsi è facile."
"E’ facile anche a farsi. Basta volere. Se tutti cominceranno ad acquistare meno, allora pian piano cambieranno i bisogni e le industrie si adegueranno; la gente cambierà visuale, gli obbiettivi torneranno ad essere altri e più importanti.
A chi importa più di farsi una cultura, oggi?
Importa lavorare, lavorare, lavorare per comprare, consumare, buttare. Comprare, consumare e buttare."
"Certo si dice che l’uomo nasca nel giardino dell’eden. E quel giardino dove è nato l’uomo è anche un giardino interiore. Probabilmente è a causa della distruzione progressiva del giardino, - dell’ambiente, dell’aria, dell’acqua che pian piano il giardino interiore con essa risente di una lenta decomposizione in una perdita continua, tanto da provocare in ampie fasce sociali la cosiddetta depressione collettiva, la malattia sociale del nostro secolo. Ecco di nuovo l’identità: l’identificazione è una modalità primordiale di attaccamento ad un quid; l’identità consente l’identificazione. Ma l’identificazione al simbolo del giardino non è più data, perché oramai il giardino non c’è più. A questo bisogna aggiungere, e sono pienamente d’accordo sulla debolezza del concetto di genius loci dello spirito dei luoghi e dei monumenti che edifici, città e campagne rivelano a posteriori attraverso il tempo della storia, la loro identità inderogabilmente interrelata con l’ambiente naturale e culturale. In una dialettica discordante tra i mille sottili mormorii contraddittori della storia, tra l’equivocità dubbiosa di mille tracce e segni ambigui; solo attraverso un dialogo interpretativo tra l’interrogazione dei luoghi, delle campagne, degli ambienti naturali, delle città, con un’attenta analisi storica nel tempo e nello spazio, solo così potremo cercare di capire qualcosa sull’identità dei luoghi. Certo è vero che oggi, in alcune aree geografiche come la nostra, martoriata e profondamente diffamata da quest’idea nordestina di sviluppo cieco ed incosciente, perdendo la gente stessa la propria identità, allora è più facile che i luoghi rimangano deturpati anche in quei centri invece così ricchi d’identità storica e spaziale."
"Eh sì, caro architetto ! Ma non serve filosofeggiare troppo, intorno a questi temi. La gente non si ritrova più, è perduta: ma come potrebbe non essere così in territori completamente cementificati, asfaltati, elettrificati, grigi, sporchi, disordinati, inquinati, nel deserto di cemento, nell’inferno di ricchezza; dove è quasi impossibile trovare un percorso per camminare, dove una pioggia allaga tutto, dove il traffico la fa da padrone, dove il rumore ti martella le viscere, dove l’aria sa di fumo, è cattiva e piena di radiazioni elettromagnetiche. La distruzione del territorio è solo una parte della distruzione totale a cui stiamo andando incontro: pensa che in questa nostra civiltà assurda i vecchi diventano carne da buttare e un costo per gli altri già molto presto. Pensa che stupida realtà: i vecchi sono l’essenza del mondo, sono l’anima della civiltà. Immagina di vedere un albero secolare con i suoi nodi e le sue forme ritorte, grande e solido. Un albero secolare è sacro, incute rispetto, ammirazione, anche soggezione; è protettivo, dà sicurezza. Questo dovrebbero essere i vecchi e così sono sempre stati, anche tra gli indigeni, gli indiani, i polinesiani e non solo nelle civiltà evolute. Oggi invece i vecchi vengono abbandonati alla loro solitudine, in uno stato di inutilità e peggio di peso per gli altri e la società intera. La lentezza, la libertà nel giudicare, i valori del tempo passato, il tornare bambini con dentro di sé una vita intera di esperienza, tutto ciò non è utile a questa volgarissima cultura della produttività, dello sviluppo superveloce e del consumo di massa. Il vecchio non produce, tramanda cultura che non serve e allora sacrifichiamolo come sacrifichiamo gli alberi secolari magari per fare un orribile condominietto di miniappartamenti. Dobbiamo fare di tutto perché i vecchi e gli alberi secolari vengano valutati almeno più importanti del quotidiano consumo di futilità: le sovrintendenze dovrebbero vincolare gli alberi, invece di imbrigliare nella burocrazia chi ha bisogno di mettersi a posto la vecchia casa, e gli uomini dovrebbero valorizzare con sacro rispetto la vecchiaia.
Ma vedi che siamo sempre allo stesso punto: è la forma stessa della nostra società che ormai non è più accettabile: il terzo mondo alla fame, i paesi altamente industrializzati ormai vicini a fratture definitive, il liberismo esasperato del turbocapitalismo disordinato e feroce, la tecnologia e la scienza troppo asservite a macroobbiettivi economici come la mutazione dei cibi transgenici per aumentare velocità e profitto o peggio la continua creazione di bisogni che tali in realtà non sono. Il degrado di questa civiltà è giunto ormai al capolinea. Bisogna comprenderlo . Chi ne ha la forza deve battersi, chi non ha la forza non deve far altro che attendere, qualcuno se vuole può cominciare a tirarsi fuori, a negare a rinunciare, a defilarsi da logiche oramai divenute inaccettabili dal punto di vista etico, come inaccettabili sono la guerra, la violenza, lo stupro. Noi stiamo assistendo allo stupro violento di un mondo intero, alimentato da pochi in una spirale infernale entro cui stiamo tutti."
"Capisco cosa vuoi dire, ma non posso essere d’accordo completamente sul tuo ragionamento. Pensa, nel succedersi della storia, quante volte la civiltà è rinata dalle macerie di una precedente in declino. E sono sempre stati gli uomini i fautori della rinascita."
"E’ quello che dico anch’io, in verità. Dico che è necessario prendere coscienza della fine, prima che sia troppo tardi, per salvare il salvabile e per cominciare a delineare un futuro possibile, una nuova era."
Ce ne andammo a letto verso le 10.00. Mi addormentai quasi subito, pensando a quanto detto fin lì, allo spadroneggiare sfrenato del mercato globale, a questo nuovo scenario mondiale ove il modello occidentale invasivo ed incombente ha trionfato ovunque con un risultato che ci viene presentato spesso come il migliore possibile.
"Ma è davvero così?" pensavo "Questo mondo offende la dignità umana". "Ma allora l’idea di Jaco di opporsi, di battersi, con tutte le forze, non è quella giusta ?"
"La situazione è pessima", pensavo, "si va come naufraghi verso la menzogna, verso la servitù cieca ad un comandante che non c’è, che non sa timonare nel mare in tempesta. Si va verso il nulla…"
Il mattino seguente, come sempre, Jaco discese verso le 5.30, tranquillo e di buon umore. Lo aspettavo. Con la sua teutonica regolarità, come atavica memoria di usanze scolpite nei muri , preparando la prima colazione, ripeteva i gesti abituali d’ogni mattina. Rassettava, puliva, mescolava le colle nelle ciotole, sceglieva nel magazzino il cibo della giornata. Un po’ di thè, una fettina di pane caldo, un po’ di miele delle sue api; il fuoco da rinvigorire per scaldare un’aria freschissima a cui mi stavo comunque abituando, la pentola già sul fuoco per il pranzo e la cena. Fuori buio.
Lo guardavo, cercando di attardare il più possibile la mia sortita dal sacco a pelo, nella speranza che il focolare stemperasse l’aria. Riservato e gentile come sempre, s’infilò in bagno silenziosamente, dopo aver poggiato la tazza del thè bollente vicino al mio giaciglio. Verso le sei eravamo pronti, vestiti e rifocillati. Fuori ancora buio. Jaco, dopo aver acceso l’impiatino a 12 volt, inserì nel compact un’intensa esecuzione di Maria Callas e con essa si concentrò davanti al quadro, come credo d’abitudine tutte le mattine. Io, seduto sul tavolo, incantato dal fuoco e dalla musica, godevo nell’emozione provocata ascoltando la "divina".
Ma entrambi sapevamo che di lì a poco, la nostra discussione sarebbe ricominciata, per tentare di avvicinarci allo stadio finale del ragionamento; per parlare di utopia e di opposizione.
(In quel periodo avevo anche letto qualche libro e qualche saggio sull’argomento , come quello di Giorgio Bocca il secolo sbagliato ,o quello del sociologo urbano Ilardi negli spazi vuoti della metropoli , o quello di Madera l’animale visionario oppure la nuova intervista a Hillman; poi avevo visto i ritratti fatti da Paolini e Mazzacurati a Rigoni Stern e Zanzotto.) Mi rendevo conto che, ciascuno a suo modo, alcuni pensatori cominciavano a dare voce, a scrivere, a parlare della distruzione, del caos, del vuoto provocato dalle mutazioni superveloci del novecento, ma anche di orrori, di errori, di falsi miti… Con alcuni di loro trovavo assonanze, con altri mi sentivo in completo disaccordo. Ma così mi rendevo conto di come Jaco, sia pur isolato, dal suo eremitaggio, non fosse poi così visionario oppure esagerato detrattore e non fosse poi così solo nel considerare la situazione in modo tanto tragico e devastante. Al contempo non riuscivo a distogliere i miei pensieri da alcuni riferimenti positivi che, soprattutto negli ultimi anni, in fondo avevano alimentato le mie speranze. Pensavo al progresso scientifico, alla nuova tecnologia, a quanta strada verso un mondo migliore la scienza era riuscita a percorrere soprattutto nell’ultimo secolo. E così pensavo che, come nella storia dell’arte la dialettica tra classico ed anticlassico fosse sempre stata il fulcro dell’innovazione, così dalla rivoluzione industriale in poi, il dualismo, purtroppo conflittuale, tra umanisti e scienziati sia sempre stato il tizzone per accendere il fuoco del nuovo. Pensavo a quanto inadeguati, siano oggi, gli umanisti rispetto ai matematici; a quanta superbia intellettuale tra le righe inutili di troppi saggi illeggibili ed impraticabili, e a quanta fantasia ed inventiva invece nei lavori di famosi scienziati (come Edward Wilson, oppure Murray Gell- Mann oppure ancora Arno Penzias) e di chissà quanti giovani sconosciuti che lavorano per scoprire ciò che prima non c’era o non si conosceva. E così mi sentivo confuso, non riuscivo a trovare il bandolo della matassa, non riuscivo a sintetizzare, a trovare schemi soddisfacenti entro cui far correre i molti ragionamenti, i dubbi e qualche idea che più insistentemente percorreva la mia mente così carica di domande ed ansiosa di verità.
Oscillavo tra l’osservazione delle grandi malattie incurabili di un mondo nuovo difficile da capire, e l’osservazione delle straordinarie innovazioni tecnologiche e scientifiche, capaci di aprire nuovi orizzonti vastissimi in tutti i campi. I pensieri saltavano altalenanti tra i due poli del pendolo, provocando in me la curiosità di provare una sintesi tra tecnica e poesia, tra matematica e filosofia, tra astrattismo e verismo, tra arte e scienza, come per i fisici, gli astronomi ed i matematici tra l’infinitamente piccolo e l’universo infinitamente grande. In realtà nella mia idea di arte e di architettura, non avevo mai accettato di separare la conoscenza dalla Technè, l’estetica dalla tecnica. Ne avevamo già parlato con Jaco di quest’idea dell’arte vista come un fare che attraverso l’uso ed il dominio di una tecnica precisa offre all’uomo un contributo di conoscenza e di contenuti non necessariamente estetizzanti o belli ma sicuramente nuovi ed anticipatori per vocazione intrinseca. Separare la Technè dall’attività spirituale o dall’idea è come immaginare Leonardo che pensa la Gioconda e la spiega ad un ragazzo di bottega per disegnarla; oppure immaginare Ungaretti in trincea che pensa all’immagine dell’alba o allo stare dei soldati e si fa scrivere i versi da un diplomato che presta i suoi servigi agli sventurati alpini analfabeti per leggere loro le lettere. Ma come si può pensare di separare la tecnica dal pensiero in campo artistico? E’ una distorsione grave, un errore grande come una casa. Per pensare di costruire un edificio bisogna progettarlo, per progettarlo bisogna disegnarlo, per realizzarlo bisogna calcolarlo. Altrimenti se fosse possibile questa separazione, allora si potrebbe solo pensare l’architettura per poi attendere speranzosi che una "fata smemorina" con la sua bacchetta magica. Altrimenti quanti poeti, quanti pittori, quanti scultori. E se non ci fosse l’innovazione tecnologica allora vivremmo ancora in case costruite di paglia e terra, costruiremmo ancora come gli antichi in modo trilitico usando grandi masselli di pietra. Mi assalivano i dubbi: ma quale opposizione? Ma perché battersi per fermare il progresso??? Quello che c’è da fare oggi è seguirlo il progresso, cercando di utilizzare al meglio l’accelerazione tecnologica, cercando la rotta tra le onde di un mare informe e sconosciuto. Usarla, questa tecnologia, per migliorare e per migliorarsi, per non affogare!
"In fondo Jaco" pensavo "sa usare il linguaggio HTML, usa il computer come un drago, masterizza, scannerizza, progetta quotidianamente innovazioni al suo sito Web, porta fuori dal computer immagini e tecniche varie di scrittura e le mette su i suoi quadri; in fondo non nega la tecnica, anzi tutt’altro; la utilizza al meglio per i suoi scopi e pur vivendo come un montanaro d’alta quota o un eremita d’altri tempi, con internet è molto più avanti di molti altri, anzi direi di quasi tutti gli altri che conosco; la sua opposizione non è contro la tecnica o l’innovazione , bensì contro il predominio del profitto e del consumo massificato, contro il sovrapopolamento indiscriminato di oggetti e bisogni, contro la distruzione cieca del pianeta, dell’ambiente, delle campagne e delle città"
Ormai s’era fatta l’ora di parlare e così gli proposi l’argomento:
"Ma se bisogna opporsi, allora in qualche modo è necessario porre un freno all’innovazione, alle scoperte scientifiche, al tecnicismo ? Com’è possibile frenare lo sviluppo, se non fermando la ricerca e l’evoluzione stessa del pensiero scientifico??"
"Non è questo il problema; è la separazione parcellizzata dei saperi e dei poteri , nell’assenza di una visione di sintesi, di uno sguardo d’insieme, di un’idea unitaria nelle impercettibili ed inspiegabili interconnessioni tra il semplice e il complesso, tra l’ordine e il caos, tra il previsto e l’imprevisto; un’idea di sintesi su questo tessuto di milioni di fili che è il mondo in cui viviamo. Troppo spesso gli specialisti procedono col paraocchi nello studio del loro dettaglio, fregandosene di guardare all’insieme, dimenticandosi del resto, senza porsi problema alcuno sugli utilizzi eventualmente distorti di una scoperta o di una invenzione.
Non ho mai condiviso i pensieri di quei filosofi detrattori delle scienze che si oppongono al razionale per ideologia, ma bisognerà pur dire una volta per tutte che troppo spesso le teorie prevalenti sono quelle sostenute dal business; bisognerà pur dire che, nel mondo scientifico, il vizio di separatezza e della superspecializzazione alimentato dalla fede per l’innovazione tout court, può portare ad errori, a distorsioni e perfino ad orrori. Altrimenti dovremmo dar ragione a quel medico criminale nazista che ad Aushwitz sperimentava le sue macabre idee su quei poveri bimbi e soprattutto su quei gemellini per scoprire le cellule della razza pura; altrimenti dovremmo dar ragione a quei criminali che sperimentano le armi batteriologiche, le armi etniche e quant’altro di obbrobrioso si sente raccontare in giro. Allora se contasse solo la fede incondizionata per la scienza e l’innovazione, senza una visione d’insieme, in nome di questa fede potremmo fare di tutto. Per fortuna che molti scienziati - mi ricordo in proposito di aver letto un documento interessantissimo del Santa Fè Institute si pongono quotidianamente questo problema. Per far fronte agli immensi problemi della terra, ecologici e sociali, occorrono nuovi strumenti, nuove teorie, non bastano più l’analisi e lo studio di tanti sottosistemi. Gli scienziati ed i ricercatori devono lavorare insieme con i filosofi, con gli antropologi, con gli psicologi, con gli economisti e perché no, con gli artisti e gli architetti per progettare un percorso sostenibile di questa globalizzazione accelerata ed irrefrenabile nel tentativo di conciliare il radicalismo finanziario, l’espansione di un liberismo economico troppo esasperato, le ragioni dello sviluppo con quelle dell’equità senza per questo ricorrere allo statalismo e al dirigismo unilaterale."
" Parli di quell’indiano economista, il premio Nobel Kumar Sen?" lo interruppi.
"Anche, ma ce ne sono altri economisti che cercano di allargare la loro visione al di là del puro bilancio e di una fredda statistica occupandosi anche di valori, e delle attività umane più disparate. Allora, dicevo che bisogna fare in modo che tutte queste menti si riuniscano per trovare una linea guida, approssimativamente perseguibile da tutti; perché si possa trovare la maniera per salvarci, altrimenti finiremo male. Se proseguiremo così, nell’incomunicabilità totale e planetaria tra tutti i sistemi dei saperi e dei poteri e tutti i sottosistemi delle discipline, delle teorie e delle arti, allora il predominio cieco della distruzione e della competizione economica sovrasterà l’uomo, schiacciandolo, annichilendolo, svuotandolo.
Non so cosa bisogna fare, ma credo che una sintesi tra un’idea rinascimentale armonica e neoplatonica, e un’illuminismo scientista e tecnocratico, attraverso le nuove libertà ed i nuovi scenari della grande rete, ecco, credo che questa sia una buona strada. Non per fare un’asta mondiale al ribasso dei saperi, al contrario per inventare una nuova economia, più aperta, più comprensibile, più fantasiosa. Per partecipare, per aprire la democrazia al nuovo mondo e al nuovo modo di pensare il mondo, per non perdere la cognizione di sé, per ritrovarsi, per portare un contributo. Il concetto di armonia è centrale. Nella grande rete si potranno fare grandi cose ed inventare nuovi spazi di libertà, di opposizione e di autodifesa. Molte antiche regole o costumi economici, commerciali, ma anche sociali verranno sovvertite in pochissimo tempo. Questo è ciò che potrebbe avvenire, ma credo che la realtà sarà diversa, purtroppo. Gli squilibri aumenteranno, i focolai di guerre etniche di questo tragico periodo si allargheranno, gli scompensi economici diverranno sempre più macroscopici, la distruzione del pianeta continuerà irrefrenabile. L’utopia non c’è, non può esserci; almeno io non riesco a vederla davvero, nemmeno nella mia utopia antropologica ed ecologica di ricerca di una buona dimora personale"
Mi ero illuso, ma Jaco non voleva proprio distogliere la sua mente dall’idea di un destino ormai incontrollabile di declino, mascherato sotto le vesti di una vana ricerca di benessere; nascosto, occultato dall’apparente crescita di ricchezza e di successo dell’attuale modello di sviluppo.
"Io sono sicuramente d’accordo con te sul fatto che la globalizzazione dell’economia favorisca in maniera massiccia l’espansione di grandi aree geografiche socialmente povere ed emarginate; come condivido anche l’idea che la società avanzata abbia fallito il suo obbiettivo di coesione tra sviluppo e libertà, tra benessere ed equità. Anche l’idea di rendere lo Stato come garante della redistribuzione del reddito allo scopo di livellare le disparità, in realtà nel 900 ha fallito oltre ogni più pessimistica previsione. E’ anche molto pericolosa questa emersione degli "analfabeti dell’industrializzazione" li ho sentiti chiamare così proprio da qualche amico industriale annegati nell’incultura, privi sia delle basilari cognizioni democratiche che liberali; il loro salvagente è il denaro, l’unico Dio, l’unica Madre, l’unico Padre. Altro che i vecchi eroi del capitalismo. La contrapposizione tra destra e sinistra è morta e sepolta, la dialettica tra le classi sociali anche, come le ideologie e le utopie. L’unico dittatore è il mercato allo stato puro; come disciolto nel pianeta, invade e pervade tutto, si infiltra dappertutto come una colata di un liquido denso ma anonimo, trasparente, impercettibile, intoccabile. Questo che alcuni ed anche tu chiamate "turbocapitalismo" non è governabile con atteggiamenti autoritari, statalisti, restrittivi, moralisti o giacobini. Né tantomeno con le teorie dei nipotini di Nietzche e Heidegger tanto in voga oggi soprattutto in Italia. Alcuni di questi addirittura esaltano la qualità del costruito diffuso, come qui da noi nel Nord est, - la Los Angeles Veneta esaltano le periferie ed i suburbi e poi scopri che loro abitano nei loft minimalisti firmati, adiacenti ai parchi ed ai centri storici. Questi signori cercano gli antidoti al capitalismo pensando a questo come se fosse un sistema omogeneo di poteri, rigido e compatto; sono i postcomunisti che provano ad inventare nostalgicamente terreni su cui lottare; ma quella contrapposizione non c’è più. Il neocapitalismo avanzato è come l’aria intorno al pianeta, buona o inquinata, pura o fumosa, limpida o fetida, ma è ciò che respiriamo e con essa dobbiamo vivere, ad essa dobbiamo adattarci anche quando raschia i polmoni. Te l’ho già detto più volte: con tutto questo, però, non riesco proprio a credere né all’apocalisse, né alla catastrofe, né alla fine dell’uomo e del suo pensiero. C’è ancora tempo, c’è molto da fare, molto da imparare; c’è da adeguarsi, quotidianamente ed instancabilmente. Bisogna adattarsi a cercare di far bene il proprio mestiere attraverso un’idea conciliante di una possibile convivenza pacifica e sostenibile. Non bisogna perdersi, bisogna resistere a questo modus vivendi dilagante della spettacolarizzazione, prestazionistico ed estremo, negli anni della fine del moderno. E’ un conflitto storico, questo dell’opposizione tra il rifiuto di un mondo sbagliato e l’utopia della sua valorizzazione Bisogna lavorare ‘a togliere’ per ricercare normalità, serenità, ordinarietà; bisogna semplificare, bisogna abbattere, bisogna diminuire"
Passai con Jaco altri tre giorni meravigliosi, durante i quali disegnai moltissimo ed annotai una prima succinta stesura di appunti sul suo modo di concepire l’arte, l’architettura e la vita. Raccolsi una serie di schizzi per dei progetti di design che avevo in corso, e mi concentrai molto intorno alla prima concezione di un piccolo edificio universitario. Intanto lui completò il quadro bianco e realizzò un blocco intero di ritratti con la sanguigna dalle mie vecchie foto di famiglia, ascoltando ancora e più volte il concerto per piano ed alcune esecuzioni di Maria Callas. Continuammo a parlare d’arte e d’architettura, ma non discutemmo più di politica e di temi generali; cercammo invece di mettere a punto i nostri pensieri sul costruire, sulla città, sul fare pittura. Jaco m’insegnò ancora molte cose su Internet, ma soprattutto sulla vita arcaica dei montanari, sull’alpeggio, sull’alpinismo e su molti animali che frequentavano l’altipiano; mi raccontò dei picchi muraioli, delle coturnici, delle marmotte, dei camosci e degli stambecchi, delle volpi, dei fagiani di monte, dei cuculi, del gallo cedrone, delle pernici bianche, dei corvi imperiali, dei falchi, delle aquile, dei lupi. Mi raccontò anche delle praterie alpine, delle genziane, delle campanule, della peverina dei ghiaioni, delle orchidee dolomitiche e di tantissimi altri fiori e piante medicinali. Dormivo bene, mangiavo bene, lavoravo bene in quel luogo immerso tra le nuvole ghiacciate di un cielo invernale purissimo ed inebriante. Ritrovai stimoli ed un piacere nuovo nel disegnare, mi sentivo libero, tranquillo e più sicuro. Si lavorava dall’alba al tramonto, subito dopo cena si faceva un po’ di "filò", e poi a letto. Mi sembrava di rinascere e di ricominciare. Anzi, volevo ricominciare! Mi ero liberato e distaccato, potevo finalmente disegnare coi miei progetti anche un mio futuro che da lì m’immaginavo rinnovato e stimolante.
Ero incantato dal paesaggio intorno a me, dagli alberi, la neve, le rocce; tutto mi invitava a continuare la mia piccola ricerca interiore di una semplice qualità del costruire, e di una dignitosa e discreta coerenza di mestiere, di una mia creatività più libera e potente. "La casa di Jaco" mi possedeva caldamente, ed io possedevo lei, tanto da sentirmi come liberato, spogliato di tutti gli orpelli, finalmente vicino ad un mio io, che ancora non conoscevo. La natura intorno m’aiutava a sondare nella mia, e la casa di Jaco, a dispetto di tanti discorsi, m’ispirava ottimismo e speranza per un futuro migliore.